PALAZZO ARCIVESCOVILE

Qualche accenno alla storia del Palazzo Arcivescovile (tratto dalla “Relazione storica”  redatta dall’arch. Benedetta Caglioti)

Il Palazzo Arcivescovile insiste sull’isolato adiacente alla Cattedrale di San Giorgio Martire di Ferrara. Costituisce l’angolo tra Piazza della Cattedrale e Corso Martiri della Libertà e prosegue su via Guglielmo degli Adelardi.
L’isolato di cui fa parte il Palazzo, come dimostra la carta storica del Moroni del 1618 era costituito principalmente da case a schiera prospicienti Corso Martiri della Libertà e risalenti all’epoca medievale, mentre la sede dell’Episcopio era situata lungo via Gorgadello (attuale via Adelardi) in posizione secondaria. Soltanto a partire dal 1718 l’isolato viene trasformato nella configurazione attuale voluta del Cardinale Ruffo (Vescovo a Ferrara dal 1717 al 1735) contemporaneamente ai lavori che si stavano svolgendo per il nuovo assetto della Cattedrale iniziati nel 1712.

L’isolato era di strategica importanza per la vicinanza alla Cattedrale, con cui è direttamente collegato tramite un passaggio voltato, e al potere comunale, infatti il Palazzo prospiciente quello Arcivescovile su Corso Martiri della Libertà è ancora oggi sede del Comune.

Il 12 luglio 1717 il Cardinale Tommaso Ruffo di Calabria, volendo abitare in un palazzo più signorile, incominciò a far eseguire alcune demolizioni per costruire un altro nello stesso luogo, secondo il disegno di un architetto venuto da Roma, Tommaso Mattei .
Nel 1718, infatti, il Cardinale Ruffo acquistò alcuni edifici adiacenti al complesso originario, facendo poi unificare dal Mattei questi con gli altri corpi di fabbrica preesistenti, in modo da costituire un unico palazzo monumentale. Il Frizzi scrive “il cardinal Ruffo che era principe milionario e napoletano ebbe come sempre la visione e il gesto del Signore. Comperò le case attigue sul lato dell’odierno di corso Martiri: le unì al vecchio episcopio e il tutto riplasmo e fuse creando il nuovo edificio, che apparve una cosa nuova e si impostò regalmente nel nostro centro cittadino” .
Fu proprio il cardinale Tommaso Ruffo, duca di Bagnara e di Napoli e due volte Legato di Ferrara (1710-14 e 1727-30) e suo vescovo dal 1717 al 1735, ad elevare l’episcopio al rango di grande palazzo principesco arcivescovile allo scopo di sottrarla per sempre alle secolari pretese di supremazia della chiesa ravennate. Egli fu il primo arcivescovo dal 1735 al 1738, anno in cui rassegnò la diocesi al pontefice Clemente XII.
Il cardinal Ruffo, con un dispendio di risorse economiche sottolineato in maniera non certo casuale da tutte le fonti documentali ed iconografiche, stravolge, come osservato, l’assetto distributivo del palazzo e modifica sostanzialmente l’impianto urbano di questa parte significativa del centro, caratterizzandola con la prolungata simmetria e la monumentalità dell’intervento; e contrastando, certamente con un preciso intento politico, la prospettante resistenza del maestrato, sede del potere pontificio e sede del governo locale ora una di fronte all’altra, con pari dignità architettonica e con misurato peso spaziale. La celebrazione dell’impresa è affidata ad Andrea Bolzoni che attraverso due tavole illustra l’area del palazzo prima e dopo gli interventi .

Mentre la cronaca del 12 luglio 1717 apre la storia della trasformazione avviata sul finire del secondo decennio del Settecento alla luce di attendibili riferimenti cronologici, seguendo altri indizi apprendiamo che i lavori si protrassero grosso modo fino al 1724. Nelle porte delle sale del piano nobile si trovano cornici di pietra rossa di Verona su cui sono incise in progressione cronologica le date 1721, 1722, 1723 ed infine 1724, seguendo l’ordine nel quale gli ambienti venivano via via terminati.

È significativo che il cardinale Ruffo per la propria dimora che doveva “contenere in sé una fiorita corte con tutti i tribunali e ministri necessari” abbia orientato la sua scelta verso l’ambiente accademico romano. La scelta di un architetto della capitale pontificia infatti si profilava presumibilmente come la più idonea a soddisfare le festose esigenze del Ruffo, più di quanto non si potesse trovare nella periferica situazione ferrarese.
La nuova facciata del palazzo si apre con forte accentuazione longitudinale, sull’ampia via che conduce al castello, frontalmente all’ex residenza del Maestrato dei Savi, mentre il lato minore, sostituendo l’ala più antica del Vescovado, prospetta sul sagrato del duomo. Non più un edificio “inordinato, scomposto e privo di maestà”, bensì un “amplo e conveniente edifizio” , un monumentale intervento architettonico a scala urbana, intonato ad accenti inconsueti nell’idioma dell’architettura ferrarese.
Gli effetti conseguiti, nei quali si evidenzia senza equivoci la formazione romana dell’architetto ideatore, sono raccolti in una gradevole misura scenografica ravvisabile tanto nella chiarezza compositiva, quanto nell’articolazione spaziale e nelle proporzioni tutte settecentesche.

Il fronte principale, caratterizzato da un marcato orizzontalismo, è scandita verticalmente in tre settori da pilastrate marmoree; la parte centrale si presenta con superficie liscia, semplicemente intonacata, le due estremità sono risolte a finto bugnato. Se le numerose aperture distribuite su tre piani con cornici leggermente mosse in pietra e le finte finestre della fascia sottotetto conferiscono il giusto ritmo all’intera facciata, è il grande portale a doppia altezza con colonne libere l’elemento di maggiore raccordo visivo, più aderente, nella singolare soluzione degli ordini e nella decorazione a tralcio, al linguaggio della Roma tardobarocca che all’architettura del luogo.
La parte inferiore del palazzo è occupata da una serie di botteghe; il ricavato dall’affitto di alcune di esse: “due a mano sinistra e le altre nove a mano destra della Porta maggiore”, era da destinarsi per volontà del cardinale Ruffo, il quale istituì un’apposita opera pia a suo nome, a favore di dodici alunni del Seminario Arcivescovile; per questo motivo sopra le cornici di alcune botteghe si trovano incise O.P.R., ovvero le iniziali di Opera Pia Ruffo.
Dal temperato schermo della facciata si passa, attraverso il portale, nell’ampia volumetria dell’atrio a crociera con pareti scandite da membrature architettoniche, formato dalla singolare loggia-corridoio che distribuisce i tre cortili. Da qui di raggiunge l’imponente scalone che immette nel piano nobile.

Il tema dello scalone come organismo con intenti di puro fasto architettonico, nel quale la decorazione plastico-pittorica si salda al vano della scala diventandone elemento costitutivo essenziale, si pone in evidente sintonia con le ricerche spaziali e scenografiche del tempo, non solo in area emiliana ma anche a livello europeo.
Tra gli esempi ferraresi questo scalone viene altresì considerato il monumentale prototipo di quelli a due rampe e, del periodo storico in questione, certamente il più significativo.
Le pitture del soffitto dello scalone sono attribuite da sempre al pittore bolognese Vittorio Bigari, per le decorazioni plastiche furono opera di Andrea Ferreri e Filippo Suzzi.

La luce che esalta il valore scenografico dell’insieme, si irradia nel punto d’arrivo della seconda rampa da una coppia di finestre che prospettano sul cortile interno, entrambe coronate da sovrabbondanti cornici. Gli ambienti del piano nobile sono tuttora conservati nell’articolazione spaziale settecentesca, impostata sui due ampi saloni paralleli alla scala principale e sulla lunga teoria di sale passanti affacciate su corso Martiri della Libertà. In una di queste due sale con l’ingresso diretto dallo scalone, lo scenografo ferrarese Tommaso Raffanelli dipinse nel 1720 un ciclo araldico che illustra la successione cronologica dei vescovi di Ferrara.
A completare il ciclo settecentesco del palazzo è la sala parallela comunicante con lo scalone denominata “la galleria”. Questa si configura con una pregevole decorazione della volta ancora in buone condizioni conservative, ma con tutta probabilità pesantemente ritoccata nel corso dell’Ottocento. Il lavoro fu ordinato nel 1740 (e terminato nel 1742) dal vescovo cappuccino Bonaventura Berberini durante gli anni del suo governo pastorale, ai due pittori cappuccini Fra Ferdinando da Bologna e Fra Stefano da Carpi.

 

Abstract progettuali – analisi e studio del degrado e dei danni post-sisma

Immagini del degrado nello scalone settecentesco

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